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Urbane a roma

Arbores / La ramificazione dei nuovi centri culturali

Spazio Chirale

Testi: Davide Lunerti
Fotografie: Riccardo Ferranti

Spazio Chirale è la galleria di processo dell’azienda tecnologica Chirale Srl. Insieme a Fablab Ostiense, sede secondaria al di là del ponte Settimia Spizzichino, costituisce un luogo dedicato all’innovazione tecnologica, rivolto ai creativi, alle aziende e alle scuole di Moda, Arte e Design. Macchinari, laboratori e fablab vengono messi a disposizione per la realizzazione di opere d’arte, progetti editoriali e di moda, con la supervisione di esperti della tecnologia.

Dettagli

Anno: 2016
Indirizzo: Via Ignazio Persico, 32-34
Persone intervista: Leonardo Zaccone, co-fondatore, 1 domanda specifica: Francesco Quintavalle, studente tesista dell’accademia di moda
Direttivo: Leonardo Zaccone, Stefano Varano, Rosita Esposito

LEONARDO ZACCONE

  • Com’è nato il vostro progetto? Perché aprire proprio in questa zona?

Chirale è un’azienda che nasce dal grande movimento dei makers romani, risalente ormai a 8 anni fa. Ha voci molteplici, legate alla rete territoriale, all’arte, allo sviluppo industriale di software, alla ricerca nella moda e sui materiali.
La scelta del quartiere di Garbatella nacque da una mia ricerca sulla vita della città. Garbatella era facilmente raggiungibile con la metro e con il treno, vicina all’università di Roma 3 dall’aeroporto e da Ostia. Un quartiere che non ha la fascia blu, centrale ma fuori dalle mura.
Volevamo che Chirale fosse inserita in un quartiere vero, fatto ancora di edicole, di mercati, di persone che spesso passano davanti alle nostre vetrine e lasciano i loro contributi. Entrambe le nostre sedi sono a Garbatella: Spazio Chirale, che è inserito nelle vecchie case popolari dove un tempo vivevano gli operai, e Fablab Ostiense, situata nel cuore dell’archeologia industriale.
Arrivando anche a spendere qualcosina in più d’affitto decidemmo quindi per Garbatella, trovammo terreno fertile nell’amministrazione, iniziammo a interagire con Millepiani Coworking. In quel periodo (era il 2013) nascevano tutta una serie di realtà collaborative, coworking o spazi simili.

  • Quali sono i profili che compongono il vostro team?

Il nostro team è composto da Stefano Varano, che è l’esperto di tecnologia e digitale; Rosita Esposito, che lavora all’applicazione delle nuove tecnologie e alla ricerca nella moda; e io [Leonardo Zaccone] che mi occupo, invece, della parte di arte, design e comunicazione.
In qualche modo veniamo tutti dal mondo dell’arte: io sono un musicologo e mi sono occupato di ricerca sull’arte digitale, di storia dell’arte, di ricerca dell’arte sperimentale; Stefano viene dalla programmazione, ma anche lui ha studiato le tecnologie dell’arte digitale, e quindi è sempre stata presente da noi questa vocazione artistica.
Oggi l’arte non è l’unico settore su cui lavoriamo, non è neanche il principale. È un settore di ricerca e di piacere in cui lavoriamo. Una sorta di valvola di sfogo.

  • Che tipo di rapporti si sono instaurati nel tempo con il vostro pubblico? Quali sono stati i progetti che hanno riscontrato più partecipazione attiva?

Chirale non è propriamente una galleria d’arte: l’abbiamo nominata “galleria di processo”, perché è un luogo che mette in mostra i processi creativi e le tracce che questi producono, mettendoli in vetrina a disposizione degli occhi di tutti.
Nel pubblico non mancano sia i fruitori delle mostre che quelli che vengono a provare, a toccare con mano gli strumenti, a sviluppare i processi. A volte fallendo, anche. Poi ci sono i frequentatori dei nostri corsi, che sono di tanti generi, anche molto innovativi: computer quantistico, intelligenza artificiale, fotografia analogica.
Una delle nostre iniziative che ha colpito di più è stata l’evento del cinquantenario dell’allunaggio: l’abbiamo ricordato facendo una mostra su vari testimonianze e documenti stampati da noi, fotografie, schede di memoria che venivano usate nell’Apollo.
La sera abbiamo proiettato nella nostra vetrata, in retroilluminazione, le riprese dell’allunaggio mandate in onda allora dalla RAI. Questo ha portato centinaia di persone a fermarsi di fronte alla nostra vetrina: è stato un momento di popolo, un momento di quartiere, ma è venuta gente anche da tutta Roma. Una mostra curata su un fenomeno culturale e tecnologico, in un Paese in cui si fatica molto a concepire che la tecnologia stessa è cultura.

  • Quali sono le vostre collaborazioni con le istituzioni? E con gli altri centri?

Proviamo a collaborare con le istituzioni da sempre: il Comune, la Regione, il Municipio. Il rapporto con l’VIII Municipio, con l’aggiunta prima di Catarci, poi di Ciaccheri, è sempre stata ottima, sempre grande sostegno. Non economico, ci siamo sempre autosostenuti come impresa; però c’è stata vicinanza in tante cose.
I rapporti con le istituzioni a Roma sono sempre complessi. I cambi di giunta sono distruttivi, in una città che cambia assessori così velocemente è sempre difficile portare avanti un progetto.
E poi con le scuole, di ogni genere e grado per tanti anni. Siamo stati loro consulenti nelle sperimentazioni perché il fatto che lavorassimo su arte e nuove tecnologie ci permetteva di avere percorsi formativi molto pronti: non parliamo di stampa 3D, ma di scultura digitale, già dal 2014.
Abbiamo rapporti con NABA, che è attaccata alla nostra sede, RUFA, Accademia di Moda e Costume, Architettura e Design della Sapienza. Collaboriamo con docenze, laboratori. Molti ragazzi vengono qui a fare la loro tesi di laurea, specialistica o di ricerca di dottorato, utilizzando le macchine messe a disposizione.
E poi c’è tutta una serie di artisti, che assistiamo sia nella progettazione che creazione delle loro opere, come per il libro fotografico di Carola Gatta, o con Daniele Sigalot. Abbiamo ottimi con il CNA di Roma, la rete di imprese artigianali, e poi con altre associazioni e manifestazioni culturali costantemente, siamo membri attivi di Open House.

  • Quanto è importante proporre linguaggi multidisciplinari nel vostro spazio? Avete lanciato dei linguaggi sperimentali con gli artisti con cui avete lavorato?

Chirale è un luogo multidisciplinare per eccellenza. Non condividiamo il valore dell’iperspecializzazione o iperdisciplinarietà. Il nostro è un luogo specializzato, sicuramente, però negli strumenti applicabili in tantissime discipline diverse.
La nostra idea è di dare degli strumenti in mano a una persona che non ha studiato e non è ipercompetente per quella determinata tecnologia. Cosa succede se metto un taglio laser non in mano a un tecnico del laser, o a un architetto, ma a un fotografo? Questa è una delle sfide della multidisciplinarietà della tecnologia.
Quindi il tema non è che tecnologia usi, ma che obiettivi hai. Poi capiamo che tecnologia usare, a volte la più semplice è quella più efficace.
Sui nuovi linguaggi e ricerca dei nuovi materiali, abbiamo fatto una mostra a Spazio Chirale un anno fa, fatta da un’artista indiana, Rushati Chowdhury, con biomateriali realizzati da lei. In vetrina abbiamo mostrato per una settimana il suo processo, la sua lavorazione delle bioplastiche, per l’evento Your mind after Midnight, poi durante la seconda settimana abbiamo esposto l’installazione che ne era risultata (Stuck).

  • Avete collaborato a delle installazioni o a degli interventi urbani del quartiere o della città?

Sì, ma non permanenti. Abbiamo collaborato a delle installazioni, a volte per l’RGB Light Experience di Torpignattara, con tre installazioni in tre festival diversi, che parlavano in qualche modo anche al territorio. Una era un’installazione luminosa che ragionava sull’intelligenza artificiale di quartiere, rispondeva alle domande che poneva il pubblico attraverso la luce, tramite un LCD grande quanto un gazebo da fiera. La gente entrava sotto, faceva la domanda e quella rispondeva.
Abbiamo collaborato con Forte Antenne per la realizzazione dell’installazione luminosa Ekstasis, esposta lungo le gallerie sotterranee del Forte. E poi abbiamo fatto un’installazione in cui illuminavamo gli archi di Parco San Galli, che si coloravano di tre colori diversi a seconda delle persone che si sedevano sulle panchine.
Degli innesti urbani noi non ci occupiamo direttamente, non è proprio un nostro ramo principale, ma in tanti festival ce lo richiedono e collaboriamo volentieri. Come collettivo di ricerca lavoriamo anche al site-specific, ad esempio con l’installazione Gocce a Isola di Liri (FR).

  • Quali alternative ecosostenibili proponete?

La prima vera grande ecologia è la conoscenza dei processi produttivi. Studiando i processi diventa evidente quali comportamenti e materiali siano ecosostenibili e quali no. Studiare come viene fatto un oggetto, come la plastica venga messa insieme, come si fa un compostabile: fare cultura di materia porterebbe a essere più ecologici.
Noi qui studiamo e facciamo corsi sui materiali, spieghiamo alle persone come sono fatti. Possiamo così sviluppare una coscienza sulla materia: è un vero fenomeno di cultura ecologica.
Così come anticamente si studiavano le foglie, gli animali, il territorio, le stagioni: noi oggi dobbiamo studiare i materiali. È un vero e proprio ramo culturale, perché è quello che usiamo tutti i giorni. Questa forchetta che sto usando, che processo produttivo ha avuto? Se non abbiamo idea di cosa sia il concetto produttivo, come possiamo capirlo?
Dalla consapevolezza della materia, appare evidente che il riuso è l’unica soluzione. Ogni altro percorso ecologico è un percorso finto.
Noi facciamo anche processi ecosostenibili, sperimentiamo con la biomateria, con la bioplastica. Uno dei grandi campi di ricerca è la produzione al dettaglio e l’ecosostenibilità all’interno della moda.

FRANCESCO QUINTAVALLE

  • Stai lavorando a Chirale per “costrutto”, progetto di tesi di laurea in moda all’accademia di costume e moda di roma. puoi raccontarci la tua esperienza a Spazio Chirale?

Ho lavorato a Spazio Chirale da luglio quasi ogni giorno, fin dalla fase di ideazione del progetto, trasferendomi poi a Fablab Ostiense per la fase di sperimentazione. Il lavoro è a buon punto, abbiamo testato la maggior parte dei materiali.
“Costrutto” è una collezione che si basa sul cittadino, che si concentra sulla comodità urbana, anche dal punto di vista di quantità di cambi e scelta del vestiario, grazie alla modularità dei capi. Ragiona su un outfit quasi unico, che non ha bisogno di lavaggi frequenti, per ridurre gli sprechi.
È un progetto che si basa sulla comodità, sulla funzionalità, sui vestiti considerati come la casa del corpo. Le parole chiave sono tre: adattabilità, funzionalità e comodità, con la quarta parola jolly che è la sostenibilità, oggi quanto mai di importanza centrale. Per noi è vitale utilizzare esclusivamente materiali riciclati o che possano essere riciclati, ma anche aiutare a favorire il riciclaggio nel post-consumo, per velocizzare un sistema di economia circolare.
ll nome del progetto, “Costrutto”, serve a ricordarci che il modo in cui ci vestiamo è deriva da una costruzione mentale e sociale. Vogliamo realizzare un outfit nudo, perché noi nasciamo nudi, con una sola pelle, che rimane per tutta la vita ed è adattabile alle varie situazioni e intemperie. Cerchiamo di sostituirla in un ambito moderno, per aggiungere quelle caratteristiche utili che la pelle non ha.